di Amelia Pugliese
INDICE
• 1. L’arcipelago delle Isole Pontine: S. Stefano
• 2. Geologia dell’ isola
• 3. Cenni storici
• 4. Il penitenziario
◦ 4.1. La sua storia
◦ 4.2. La struttura
◦ 4.3. La tipologia e il modello del Panopticon
• 5. Testimonianze di vita nel penitenziario
• 6. Gli ultimi anni del penitenziario
• Bibliografia
1. L’arcipelago delle Isole Pontine: S. Stefano
L’arcipelago delle Isole Pontine è compreso tra i meridiani di Torre Astura e di San Felice
Circeo, appena al di sotto del 41? parallelo. È composto da due gruppi di isole, disposte per
nord-ovest e sud-est, distanti fra loro circa 22 miglia. Quello nord-occidentale comprende
l’isola di Ponza e le isolette di Palmarola, Zannone e Gavi. Quello sud-orientale comprende
Ventotene e l’isolotto di S. Stefano. Anche se la dominatrice etnica è di origine campana,
l’arcipelago si trova nel Lazio, in provincia di Latina. S. Stefano, comunque, dista da
Ventotene km 1, 400, ha una superficie di ha 28, 76, pressoché circolare e le sue coste,
abbastanza regolari ma scoscese, si sviluppano per circa m. 1840.
2. Geologia dell’isola.
Ventotene e S. Stefano risultano essere le sommità emergenti di un cono eruttivo. I geologi
hanno individuato il centro del cono vulcanico nei pressi di Punta dell’Arco.
Contemporaneamente alla grande eruzione di questo cono vulcanico, che circa 1.700.000 anni
fa diede vita al processo del “divenire” geologico di Ventotene, un’attività eruttiva di
dimensioni ridotte formò, a poca distanza, un’enorme massa rocciosa di trachiti e basalto,
presupposto genetico per l’isolotto di S. Stefano. Su questo ammasso informe ricaddero
successivamente pomici, ceneri, lapilli e scorie varie, frutto della fase esplosiva del cono
vulcanico di Punta dell’Arco. Cominciò così a prendere corpo e a svettare dalle acque una
piattaforma tondeggiante che i millenni successivi, con il contributo determinante degli agenti
atmosferici, plasmarono progressivamente così come oggi ci appare. Solo l’imprevedibilità
della mente umana riuscirà poi a trasformare quest’esuberante giardino della natura in una
triste serra di costrizione.
3. Cenni storici
Le vicende storiche dell’isola di S. Stefano sono state da sempre, e fatalmente, collegate da
un cordone ombelicale a quelle della “madre” Ventotene: così, dalla probabile frequentazione
protostorica, si arrivò allo stanziamento romano passando, per più o meno prolungate soste di
genti, soprattutto greche, che solcavano quei mari. Ma per S. Stefano si dovrebbe parlare, più
giustamente, di uno stanziamento romano sui generis riflesso cioè di quello di Ventotene:
scarsissime sono le testimonianze monumentali fino ad ora note, incentrate in qualche
spezzone di muratura, in reticolato inglobato in un cascinale. Alla suggestione popolare si
deve l’identificazione di un grande bacino scavato interamente in un banco di tufo con una
vasca realizzata per Giulia, la figlia di Augusto, relegata nella vicina Ventotene. Con il crollo
della residenza imperiale di Ventotene, anche le poche strutture di S. Stefano dovettero cadere
rapidamente in rovina. Molto probabilmente su questi ruderi, con opportuni adattamenti ed
ampliamenti, si dovettero susseguire le fasi monumentali delle ulteriori vicende storiche
dell’isolotto. Infatti la natura dell’isola non poteva che consentire sporadiche presenze, forse,
di eremiti e forme monastiche embrionali, per nulla appetibili alle bramosie dei pirati saraceni.
Nel 1019, l’isolotto, che da tempo doveva essere proprietà dei duchi di Gaeta, viene ceduto,
insieme a Ventotene, al Nobile Campolo, figlio di Docibile; nel documento relativo l’isolotto
venne indicato come Dominus Stefanus dal nome di uno dei nobili di Gaeta che ne era stato
proprietario. Questa definizione deve aver condizionato il futuro nome. È probabile, infatti,
che nel momento in cui a Ventotene venne realizzato il monastero dedicato a S. Stefano
(documentato agli inizi del XIII sec. ) il vicino isolotto passò, vuoi per il desiderio dei monaci,
vuoi per la volontà popolare, sotto la protezione del medesimo Santo di cui già possedeva,
anche se per altri motivi, il nome.
Le fonti ricordano l’isolotto come proprietà della Chiesa gaetana fin dal 1071.
Probabilmente, con la realizzazione di un monastero vero e proprio a Ventotene, cessarono le
manifestazioni eremitiche a S. Stefano e l’isolotto dovette rimanere in possesso dei monaci di
Ventotene come eventuale serbatoio suppletivo per le risorse agrarie.
Per i secoli successivi S. Stefano rimase ai margini delle vicende dell’arcipelago divenendo
rifugio occasionale per i pirati, poichè le sue ridotte dimensioni non ne consigliarono mai uno
sfruttamento razionale.
Si deve aspettare il Settecento, con il suo ambiguo bagaglio illuministico, perchè S. Stefano
possa trovare un suo spazio ben definito nel tessuto socio-economico dell’arcipelago.
L’isolotto, per le sue peculiarità naturalistiche e topografiche, venne chiamato a svolgere il
ruolo di palcoscenico per la messa in atto di un esperimento che la storia definirà, giustamente,
angosciante, ma che allora si fregiava dell’etichetta di alta e “illuminata” umanità.
4. Il penitenziario
4.1. La sua storia
S. Stefano fu scelta per la costruzione di un carcere che rispondesse agli, allora, imperanti
dettami della salvaguardia della società “sana”, mediante l’isolamento dei colpevoli ai fini
dell’espiazione della “giusta pena”. La costruzione dell’ergastolo fu l’ultimo atto della
sistemazione urbanistica delle isole pontine, voluta da Ferdinando IV di Borbone, a
prosecuzione delle imponenti opere, di uso collettivo e sociale, avviate da Carlo III a Napoli
e nei territori del regno. Ferdinando infatti aveva deciso con il consiglio dei suoi ministri di
fare delle isole pontine floride colonie. Nacque così un piano di interventi che prevedeva due
direttrici: una, volta alla realizzazione di una serie di opere pubbliche; l’altra, al ripopolamento
e alla trasformazione economica delle isole. Il piano dei lavori pubblici fu affidato alla
direzione del Maggiore del Genio Antonio Winspeare, che si avvalse della collaborazione
dell’architetto Francesco Carpi. Ma l’artefice materiale della realizzazione del carcere fu il
Carpi, il quale seguì tutte le fasi della costruzione sia sul piano strettamente architettonico che
su quello riguardante le collaterali questioni amministrative.
Secondo il Tricoli l’inaugurazione ufficiale dell’ergastolo, non ancora però ultimato, sarebbe
avvenuta il 26 Settembre 1795 con l’invio di un primo contingente di detenuti, circa 200. Non
sappiamo da dove il Tricoli abbia ricavato una data così precisa, ma è certo che l’edificio ha
cominciato ad essere abitato, anteriormente a quella data, dai detenuti che venivano adoperati
come forza lavoro nella costruzione del carcere stesso. I lavori furono ultimati nel 1797: solo
allora, il penitenziario potè allargare la propria capienza alle 600 persone previste dal progetto
di Carpi; ma già in pieno XIX secolo si potevano contare quasi 900 detenuti.
Riveste un particolare interesse sul piano non della storia, ma forse della psicologia, una
curiosa affermazione del Tricoli, secondo il quale fra i primi detenuti ci sarebbe stato lo stesso
Carpi condannato “per reato politico”.
L’informazione è del tutto priva di fondamento poichè le carte dell’Archivio di Stato di
Napoli attestano che nel periodo in cui, secondo la tradizione, avrebbe dovuto indossare i
panni dell’ergastolano, Carpi svolgeva regolarmente le sue mansioni di funzionario del regno.
Da dove il Tricoli, ed altri dopo di lui, possono aver desunto questa notizia? Si può supporre
un’ipotesi abbastanza suggestiva: per il profondo della coscienza, soprattutto della coscienza
popolare, l’ergastolo è un luogo maledetto, la parola stessa ha un suono sinistro; così, per un
oscuro bisogno di giustizia la coscienza popolare e la psicologia collettiva evocano Nemesi:
chi ha costruito l’ergastolo, il luogo del dolore, dove altri uomini saranno rinchiusi, dovrà a
sua volta, per la legge del taglione, esservi rinchiuso.
4.2. La struttura
La costruzione si presenta, come una struttura a ferro di cavallo, chiusa anteriormente da un
grande avancorpo con padiglioni quadrilateri alle estremità, torri cilindriche mediane e cortile
interno.
Lungo il perimetro del ferro di cavallo si aprono, su tre ordini sovrapposti, 99 celle,
rettangolari di: 4,50 x 4,20m., le quali furono, successivamente, ridotte alla metà (4,50 x
2,20m.) per raddoppiarne il numero.
Contemporaneamente, dovette essere costruito un anello esterno, ancora più ribassato
rispetto al primo piano del corpo originario, in cui vennero ricavate altre celle che, per la loro
particolare posizione, erano prive della finestra del lato di fondo, per cui aria e luce erano
assicurate da un corridoio antistante munito di finestre che davano sull’esterno.
In origine, nei primi due ordini le celle erano delimitate frontalmente da un prospetto ad
arconi ribassati che incorniciavano la porta e la vicina finestrella, che davano sul ballatoio:
sulla parete di fondo di ogni cella, strette feritoie a bocca di lupo, che si aprivano sull’esterno
del carcere, facevano entrare luce ed aria appena a sufficienza. I suddetti archi venivano a
formare due distinte successioni nel secondo e nel terzo piano e ripartivano in classi i
prigionieri, i quali venivano assegnati ai piani superiori come premio di buona condotta,
mentre il pian terreno era riservato ai più irrequieti e turbolenti
“Ogni cella ha lo spazio di 16 palmi quadrati e ce ne è di più strette: vi stanno nove, dieci
uomini e più in ciascuna. Sono scure e affumicate come cucine di villani, di aspetto miserrimo
e rozzo, con letti squallidi e coperti di cenci …. tetre sono queste celle di giorno, più tetre e
terribili la notte, la quale in questo luogo incomincia un’ora prima del tramonto del sole,
quando i condannati sono chiusi nelle celle, dove nell’estate si arde come in una fornace, e
sempre vi è puzzo.
O quanti dolori, quante rimembranze, quante piaghe si rinnovellano a quell’ora terribile.
Nel giorno sempre aspetti e sempre speri, ma quando è chiusa la cella, non speri, e ti senti
venir meno la vita. Allora non odi altro che strani canti di ubriachi o grida minacciose che
fieramente eccheggiano nel silenzio della notte, come ruggiti di belve chiuse: talvolta odi
rumor sordo e indistinto di gemiti o di strida e la mattina vedi cadaveri nella barella”
La superficie racchiusa dal perimetro delle celle era originariamente occupata solo dalla
cappella esagonale al centro e da due vere da pozzo; successivamente è stato alzato un muro
che ha formato un ampio cerchio avente per diametri due lunghi diaframmi in muratura che,
correndo affiancati, creano un corridoio contenente i due pozzi, che in realtà sono le due botti
di un’unica cisterna alimentata dall’acqua piovana. Mentre l’accesso al corridoio dall’area delle
celle è fisicamente libero, i due semicerchi facenti capo alla cappella sono sbarrati da pesanti
cancelli, “nel cortile maggiore non è permesso trattenersi mai agli ergastolani….” , ma solo
ai condannati ai ferri che, proprio perchè incatenati, davano sufficiente garanzia di non tentare
la fuga. Gli altri condannati, invece, vi erano periodicamente condotti per il passaggio sotto
munita scorta.
Inserimenti successivi sono pure le due torrette poligonali lungo il corpo delle celle e le
garitte delle sentinelle sulla terrazza dell’ingresso.
L’isolamento era qui sottolineato dalla voluta compenetrazione della struttura architettonica
del carcere con la conformazione naturale (tondeggiante) dell’isolotto, che faceva sì che il
mare circostante s’infrangesse materialmente sulle pareti rocciose di S. Stefano e
psicologicamente sulla mai doma volontà di fuga dei carcerati: quant’angoscia questa
calcolata sensazione potesse generare nei reclusi è facilmente e tristemente immaginabile.
4.3. La tipologia e il modello del Panopticon.
La ragione della forma circolare del carcere di S. Stefano, che pure si fonde mirabilmente con
la linea curva dell’isolotto, è fondamentalmente ideologica. Nella seconda metà del
Settecento, in Inghilterra e in Francia, venne maturando una riflessione che, pur investendo
più direttamente il regime carcerario, si rivolge globalmente a tutte quelle che potremo
chiamare “comunità coatte”, nelle quali, cioè, molti individui vivono insieme non per libera
scelta, ma perchè costretti dalla loro comune condizione di sorvegliati: i pazzi perchè non
rechino danno a sè o agli altri, i malati per seguirne l’evolversi della malattia, i condannati
perchè non evadano, gli operai perchè lavorino, gli scolari perchè studino. Così la particolare
forma del carcere rispondeva alla razionale volontà di chiudere e delimitare lo spazio che
potesse consentire, nel contempo, al carceriere di guardare sempre il recluso e a quest’ultimo
di sentirsi visivamente, e quindi anche psicologicamente, sempre controllato. L’opera teorica
che spiega, illustra e ribadisce con insistenza quasi maniacale questa necessità di sorvegliare,
perchè le energie umane non vadano sprecate o non imbocchino sentieri devianti, è
“panopticon” di Jeremy Bentham, filosofo e giurista inglese. Esso è un vero e proprio trattato
in forma epistolare mirante a dimostrare, come sia possibile, avvalendosi di un’idea
architettonica, “ottenere il dominio della mente sopra un’altra mente….” .
Il panottico è il modello di reclusione che, meglio di qualsiasi altro, segue la trasformazione
della prigione da “monumento” a “macchina”, da spazio di morte a puro dispositivo
disciplinare.
Sottolineando la trasformazione di una mentalità punitiva, esso segue il passaggio da una
morale di esclusione, di rifiuto, di lutto ad un progetto di recupero sociale degli individui
tramite l’ammaestramento, il raddrizzamento: “Una sottomissione forzata conduce poco a
poco ad un’obbedienza meccanica”.
Per quanto il Carpi potesse essere aggiornato sui più significativi orientamenti della cultura
europea contemporanea, mancano prove certe della presa di coscienza di un tal proposito da
parte del Carpi; fatto sta, che il suo carcere a S. Stefano si avvicina per molti versi alle
concezioni architettoniche ed ideologiche del Bentham finalizzate alla realizzazione di un
panottico, una struttura cioè in grado di consentire, come dice il nome stesso, un controllo
visivo a tutto campo: sorveglianza totale e visibilità totale. “La forma più naturale e più
geometricamente vera per considerare in un sol colpo d’occhio un quadro è la forma
circolare, in quanto tutti i punti del cerchio formanti sia i diametri, sia la circonferenza sono
ad uguale distanza dall’occhio; in tal modo la figura circolare diventa la base di un cono
ideale formato dai raggi visivi, aventi per vertice l’occhio dello spettatore” .
Dunque il potere (quale esso sia: medico, carceriere, o maestro) deve sorvegliare
continuamente perchè nulla avvenga di male; il sorvegliato, a sua volta, deve essere
continuamente visibile, e sapere di esserlo, perchè così perderà la possibilità e la volontà
stessa di fare il male. Quasi a giustificare tanta ansia di controllo, il Carpi fece apporre
all’ingresso del carcere questa sintomatica frase: Donec sancta Themis scelerum tot monstra
catenis victa tenet, stat res, stat tibi tuta domus.
Vale a dire: fintanto che la santa giustizia (indicata con il nome della dea greca della
giustizia, Themi) tiene in catene tanti esemplari di scelleratezza, sta salda la tua proprietà,
rimane protetta la tua casa.
Ma nel panottico non sono trascurabili anche i riferimenti teologici. La simbologia del
cerchio metaforicamente rappresenta l’occhio divino: Dio è presente ma la sua presenza è
inverificabile; Egli vede tutto, ma non può essere visto. Ciò acquista maggior valore nel caso
del carcere di S. Stefano in cui il centro del panottico non è semplicemente la torre, ma la
Chiesa che, rappresentando materialmente l’occhio di Dio, genera ulteriori suggestioni. Vi è
sempre un Dio nascosto che veglia sul perfezionamento spirituale degli uomini, che soltanto
un’esistenza morale può salvare; per questo al teatro della perversione corrisponde un teatro
inverso della sofferenza, della punizione, che deve redimere i peccati commessi. E teatro
separato, chiuso, è la cella, luogo solitario della pena. Essa può presentarsi in due figure
fondamentali: come luogo del supplizio per l’eretico incorreggibile, condannato a consumare
fino alla morte la propria punizione, o come luogo della disciplina per chi sceglie la via della
perfezione morale. In questo senso la cella funziona come luogo della verità: in essa chi è in
preda al peccato sarà perseguitato dai fantasmi della colpa, chi abbraccerà la conversione sarà
redento e libero.
Essa, dunque, è il sepolcro in cui si realizza l’oscuro incontro con la verità del proprio
spirito: sulla base di una scelta individuale esso potrà aprirsi alla luce della resurrezione
oppure trasformarsi in una lugubre tomba.
5. Testimonianze di vita nel carcere
Attraverso il linguaggio asciutto dei dispacci e delle lettere d’ufficio che Carpi scriveva ai
suoi superiori a Napoli, trapela ogni tanto qualche scintilla dei drammi che si compivano
all’interno dell’ergastolo. Veniamo così a sapere che il 26 Agosto del 1797 c’era stato un
tentativo di evasione in massa, seguito da una violenta battaglia, con due morti e numerosi
feriti, con le truppe di rinforzo provenute da Napoli; ma Napoli era lontana e il viaggio era
durato tre giorni, durante i quali gli evasi avevano assaporato la loro effimera libertà fuori
dalle mura dell’ergastolo. Altri violenti tumulti si verificarono ancora fra i detenuti, l’anno
successivo, e si ha anche notizia di un’altra evasione di massa nel 1860, e questa volta le redini
dell’operazione erano nelle mani di un gruppo di camorristi napoletani facenti capo ad un
certo Francesco Venisca.
Nel 1894 il “Corriere di Napoli” pubblicò, in due giorni consecutivi, un servizio molto
accurato, siglato M. G. sulle condizioni dei carcerati di S. Stefano; da esso apprendiamo che
da poco “sono sparite, con le catene, le giubbette rosse e non si usano più i berretti verdi per
i condannati a vita e rossi per i condannati a tempo”, ma tutti i detenuti indossano “giubba,
corpetto, calzoni, e un berrettino di panno ordinario, color terreo a quadroni”. Dallo stesso
giornale apprendiamo della fuga di un detenuto di nome Luciani, fallita per un soffio: l’evaso
era riuscito ad allontanarsi dall’ergastolo ed a raggiungere il mare in un tratto impervio della
costa dove lo aspettava una barca i cui occupanti fingevano di pescare. All’ultimo momento
però i falsi pescatori si erano traditi.
L’illuminismo, pur con la sua ripugnanza per le tenebre, per l’ombra in cui si tessono trame
oscure, con la sua ansia di riscatto e le sue preoccupazioni igieniche (poichè è riscatto anche
un maggior rispetto per il corpo), non ebbe però forza o previdenza sufficienti ad impedire
che il risultato pratico di tutto questo si risolvesse, nelle carceri, in una violenza ancora
peggiore della precedente perchè più raffinata e al tempo stesso più brutale. L’architettura
dell’ergastolo di Santo Stefano sembra, nelle linee generali dell’impianto, riflettere la
preoccupazione illuministica di assicurare all’interno più luce e più aria e quindi migliori
condizioni igieniche, oltre a quella benthamiana di garantire la perfetta sorveglianza dei
detenuti.
“Nella cella di segregazioni non si era mai soli; due occhi ci sorvegliavano anche se nulla
lo faceva sospettare. Quando si immaginava che l’occhio del secondino ci guardasse
attraverso lo spioncino della porta, ci si accorgeva che esso ci spiava dalla finestra grazie
ad un ballatoio che correva sotto le finestre e all’esterno del carcere” .
A pochi anni dal termine della sua costruzione l’ergastolo, che inizialmente doveva
accogliere solo criminali irriducibili, cominciò ad ospitare sempre più frequentemente
detenuti politici: la prima ondata di oltre 500 prigionieri vi fu tradotta subito dopo la
rivoluzione napoletana del 1799.
Da allora la lunga catena si è trascinata fino alla fine del fascismo. Pur senza intenzioni
discriminatorie fra “politici” e “comuni”, è però vero che il detenuto politico è molto spesso
vittima dell’arbitrio, non di rado è uomo di cultura e perciò più capace di conservare integra
la percezione della realtà; è, inoltre, altrettanto vero che il potere che incarcera insieme
delinquenti comuni e oppositori tende per sua natura a trattare questi ultimi con maggiore
durezza, perchè li ritiene più pericolosi. In questo senso vanno infatti tutte le testimonianze
dei detenuti politici a noi pervenute dalla fine del Settecento in avanti.
Molte oscure tragedie consumatesi a S. Stefano, e che non avranno mai una chiara
spiegazione, hanno avuto come involontari protagonisti detenuti politici; Settembrini racconta
con parole commosse la morte Antonio Prioli, calabrese di Saracena, sacerdote, condannato
a 7 anni di ferri per reati politici, spentosi a 32 anni per un male che “lo ha distrutto in 50
giorni”; Gaetano Bresci, l’anarchico che aveva ucciso Umberto I, fu probabilmente impiccato
in cella dai secondini e seppellito di nascosto, in tutta fretta, forse neppure nel cimitero
dell’isola; Rocco Pugliese, della prima leva antifascista detenuta a S. Stefano, fece
probabilmente la stessa fine, anche se la versione ufficiale della sua morte parlò di suicidio.
Alla morte spesso si richiamano gli scritti ed i ricordi dei detenuti: “….spesso vedi lo scanno
sul quale si danno le battiture e spesso la barella con entro cadaveri….” .
E ancora con agghiacciante denuncia: “…. le nostre leggi a pochi delitti danno la pena
dell’ergastolo: non di meno vi sono ora più di 700 ergastolani e in venti anni ne sono morti
1200 dei più di 1000 uccisi” .
Dal momento dell’ingresso, alle angherie, alle punizioni corporali, sino al penoso ripetuto
spettacolo delle morti più o meno naturali è tutto un susseguirsi di cupe sensazioni che
neppure il chiarore abbagliante dell’isola riesce a stemperare: “Non si può dire che tumulto di
affetti sente il condannato prima di entrare; con che ansia dolorosa si sofferma e guarda i
campi, il verde, le erbe e tutto il mare e tutto il cielo e la natura che non dovrà più rivedere
…. e null’altro vede perchè null’altro v’è fuorchè il mare, ed il cielo, e le isole lontane, ed il
continente più lontano ancora a cui vanamente il misero sospira ….” .
Inoltre proprio per la strutturazione a panottico del carcere, i detenuti sono costretti a vedere
e a vivere le punizioni degli infelici compagni di sventura: “…. il colpevole è disteso bocconi
sopra uno scanno in mezzo al cortile e da due aguzzini con due grosse funi impiastrate di
catrame e immolate con l’acqua, è battuto fieramente sulle natiche e sui fianchi ancora e sui
femori. Il comandante prescrive il numero dei colpi ed è presente col medico e col prete; i
soldati stanno sulla loggia con l’arme al braccio: i condannati devono riguardare; il battuto
urlando chiama la Vergine e i Santi, che poc’anzi bestemmiava ….; dopo le battiture è
incatenato ad un piede e messo al puntale, cioè l’altro capo della catena è fisso ad un grosso
anello di ferro che sorge sul pavimento di una segreta o è fisso ad un cancello di una finestra:
e così sta assai giorni e mesi. Talvolta gli si mettono ancora le traverse, che sono due
semicerchi di ferro messi ai piedi e fermati da un grossissimo pezzo che pesa sui talloni e
rende difficile e doloroso stendere un passo ….”.
Sono ancora di Settembrini alcune parole che ricreano perfettamente il senso di stasi
incombente e di monotonia allucinatoria suggerita dalla forma “rotante” dell’edificio e del suo
vasto spazio centrale: “Qui il tempo è come un mare senza sponde, senza sole, senza luna,
senza stelle, immenso ed uno”; gli fa’ eco Silvio Spaventa, suo compagno di cella: “sotto la
cappa dell’ergastolo non c’è mai niente di nuovo”. Ma Settembrini che in questo caso dà voce
all’intensità della sua emozione e della sua angoscia, in altri momenti conserva intatta la sua
lucidità. Entrambi ci offrono, Settembrini e Spaventa, nella diversità dei loro temperamenti,
uno specchio molto significativo delle possibili e alterne reazioni di fronte alla durezza della
pena carceraria, percorrendo entrambi l’ampio arco che va dalla disperazione allo
struggimento, alla riconquistata serenità, alla speranza che qualcosa accada.
Altra stagione di intensa presenza di detenuti a S. Stefano fu il periodo fascista, soprattutto
negli anni successivi ai processi dei Tribunali Speciali del 1928 e 1929. I nomi appartengono
alla storia del nostro tempo: Umberto Terracini, Sandro Pertini, Mauro Scoccimarro, Athos
Lisa, Emilio Hofmaier, Rocco Pugliese ed altri ancora. Quasi un secolo separa la generazione
degli antifascisti da quella di Settembrini e Spaventa, ma dietro le mura dell’ergastolo il tempo
è fermo e non è cambiato niente: si possono leggere a questo proposito le pagine famose del
Settembrini sulle “battiture” inflitte agli ergastolani, o si leggano le parole piene di orrore
dello Spaventa su “lo strazio della carne battezzata”, e si confrontino con le espressioni di
uomini vissuti in momenti e con sensibilità tanto diverse e si vedrà come in esse ricorrano
addirittura le stesse parole: “Se ci fosse l’Inferno, ei saria come l’ergastolo …. un vastissimo
teatro scoperto” ; “è in un certo modo bello a vedersi, e dentro vi è chiuso l’inferno”; “….
l’inferno all’ergastolo, è fatto a guisa di anfiteatro …. “; o ancora si leggano le parole, ricche
di un’incrollabile certezza morale, di Silvio Spaventa: “Non si parli mai più tra voi di grazia
di alcun uomo al mondo per me: io non desidero, non voglio grazia …. io mi sentirei
degradato e perduto innanzi a me stesso …. essi vogliono appunto questo degradare i loro
avversari, non avendo avuto il coraggio di distruggerli”, e si mettano a confronto con la
famosissima lettera che Pertini scrisse alla madre da Pianosa il 23 Febbraio 1933 : vi domina
la stessa inflessibile coerenza, non indebolita ma anzi rafforzata dalla durezza degli anni
trascorsi a S. Stefano. Se con il tempo si stemperò il duro scenario delle angherie fisiche non
verrà, viceversa, meno il tentativo di affidare al penitenziario di S. Stefano il compito di
cercare di soffocare con il confino ogni velleità di libera espressione contrapposta a qualsiasi
forma di tirannide.
6. Gli ultimi anni del penitenziario
Dopo la seconda guerra mondiale, S. Stefano riprese la sua normale funzione di carcere
giudiziario per ergastolani finchè, il 2 febbraio del 1965, fu definitivamente chiuso. Averlo
chiuso è stato, comunque, un atto di civiltà indipendentemente dai motivi contingenti per cui
si lo si è fatto, ma adesso l’intero complesso, che pure appartiene al demanio dello Stato, è
ormai prossimo alla rovina, esposto com’è alle aggressioni del tempo, del clima e, soprattutto,
del cieco vandalismo.
Nel 1968 un privato aveva preso in affitto l’edificio per un canone annuo si dice, di sei
milioni da versare allo Stato: pare che l’intenzione fosse di realizzarvi un grande complesso
alberghiero, pur conservando integre le strutture settecentesche. Il progetto non è mai andato
in porto, l’affitto è stato revocato, e il processo di disfacimento continua.
Anche se la privatizzazione non sarebbe la soluzione migliore, sia la qualità architettonica
dell’opera, l’unica in Italia a tradurre così fedelmente lo schema panottico, sia il dovere civile
verso coloro che hanno consumato parte più o meno grande della propria vita dietro quelle
mura, imporrebbero di salvare comunque l’edificio dalla distruzione. Perchè conservare la
memoria degli uomini e delle cose, cioè il senso della nostra storia.
Fonti bibliografiche
• “Le Isole Pontine attraverso i tempi”, a cura dell’Istituto di Storia e di Arte nel Lazio
Meridionale, Guido Guidotti Editore, Roma, 1986.
• “Ventotene, immagini di un’isola” a cura di C. Bono, R. Buitoni, G. M. De Rossi, M.
Liverani, De Luca Editore, Roma, 1987.
• “Un porto di duemila anni fa”, di Carlo Galimberti, tratto da “Bell’Italia”, N?1, Maggio,
1986, pag. 111-115
• “Fonti per la storia di Isole e Municipi”, a cura di Nino D’Ambra, Edizioni Centro di
Ricerche Storiche D’Ambra, Sezione: Documenti del passato (1806-1860), Napoli,
1989.
• “Le isole Pontine”, a cura di Pier Giacomo Sottoriva, Istituto Geografico De Agostini,
Novara, 1979.
• “Ventotene e S. Stefano”, a cura di Giovanni Maria De Rossi, Guido Guidotti Editore,
Roma, 1992.
• G. Tricoli, “Monografia per le isole del gruppo ponziano”, Napoli, 1955 (ristampa Scauri
Arti Grafiche Caramanica, 1976).
• Dubbini, “L’architettura delle prigioni, il tempo e il luogo della punizione 1700-1880”,
Milano, 1986.
• Buccaro, “Opere pubbliche e tipologie urbane del Mezzogiorno preunitario”, Electa
Edizione, Napoli, 1992.
Fonte: pubblicato sul sito Ventotenenet all’indirizzo
http://www.ventotenet.org/tourinfo/santostefano.htm
email dell’autrice: ameliapugliese@gmail.com